sábado, 7 de junho de 2008

Quando eravamo tutti pietre rotolanti

BELLARIAFILMFEST

«Charlie is my darling» di Peter Whitehead
Girato nel 1966,il film non è una semplice biopic sui Rolling Stones, ma si dimostra ritratto intenso d'epoca. Fermo per anni a causa di un contenzioso legale, accanto al percorso musicale della rock band, l'opera si propone come fulgida testimonianza della beat generation.
Nel calendario del BellariafilmFestival Anteprimadoc numero 26 c'è stato l'inedito assoluto, quello scoop che desiderano un po' tutti i festival (italiani, come abbiamo imparato durante la discussione mattutina attorno a identità, crisi e modalità di trasformazione degli eventi cinematografici). Sul programma è annunciato come Rare Rolling Stones film di Peter Whitehead, girato nel 1966 in 16mm e in bianco e nero. Poi veniamo a scoprire che il titolo vero è Charlie is my darling in omaggio a Charlie Watts, il batterista che se non avesse fatto la carriera nella musica rock avrebbe fatto il designer (questo passaggio di intervista lo ha ripreso Martin Scorsese nel suo Shine a light). Fabrizio Grosoli, direttore del festival assieme all'affiatato quartetto composto da Laura Buffoni, Luca Mosso, Cristina Piccino e Dario Zonta, spiega prima della proiezione che il distributore che detiene attualmente i diritti per concedere la pellicola lo diffidava dal diffondere il titolo originale. Questioni legali di vecchia data, spiega bene lo stesso Whitehead nell'intervista a cura di Buffoni e Piccino che fa parte del libro a lui dedicato in occasione di questo omaggio chiamato Cinema, musica, rivoluzione (edito da Derive Approdi). Ma procediamo con ordine. Appena terminate le riprese per Wholly Communion, in cui aveva catturato con grande sensibilità le atmosfere del primo meeting dei poeti della beat generation nella Royal Albert Hall l'11 giugno 1965, catturando da vicino volti, voci e sguardi di Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, e tutti gli altri, Whitehead fu chiamato dal manager dei Rolling Stones di allora, Andrew Loog Oldham, il quale gli aveva chiesto se non aveva voglia di filmare il gruppo: «Voglio vedere il metodo cinema-verité solo una camera e nient'altro». Poco dopo il documentarista al suo terzo film (il primo The perception of life, lo aveva realizzato nei laboratori di Cambridge dove era studente) è già in tournée con loro attraverso l'Irlanda, assieme alla sua cinepresa in 16mm Eclair e un registratore audio Nagra. 
Il film è un ritratto intenso che include il periodo storico, singolari alcune immagini di persone di passaggio, facce su cui si sofferma per farvi rispecchiare la loro vita o il loro lavoro. In primo piano è comunque il fascino esercitato dai quattro giovani dai capelli lunghi che già si erano costruiti l'immagine di «ragazzi cattivi», quella totale ammirazione delle ragazze, il delirio del pubblico, occhio testimone di una virulente irruzione sul palco di alcuni fan, ma anche delle fughe del gruppo davanti agli assalti dei giovani dell'epoca. Poi siamo dentro il treno, la macchina da presa li segue passo passo negli spostamenti, nei momenti di relax in cui si lasciano andare a improvvisazioni canore in cui lo zoom va a ritmo, per poi stare di nuovo a distanza quando sono in una cantina per fare l'eco a Elvis Presley. 
La scrittura visiva si fa musicale, Peter Whitehead sa scrutare i volti e scoprire gli ambienti come nessun altro, si immerge nelle situazioni e nelle persone riuscendo a visualizzare le emozioni più intime. Le interviste a Mick Jagger, Charlie Watts, Brian Jones, Keith Richards li disegnano in tutt'altro modo rispetto alla facciata creata verso l'esterno, ed ecco il motivo del ritiro della pellicola: «È stata la società americana che aveva preso il controllo della loro immagine - dice infatti Whitehead nella intervista succitata - Andrei Loog Oldham era stato comperato da Allen Klein della Abkco di New York» e in un passo successivo osserva che «quel piccolo film molto intimo non somigliava ai kolossal della 20th Century Fox che la Abkco aveva in mente per i Rolling Stones». Ma pare che a breve i problemi finiscano, da quando nella gestione della società è subentrato il figlio Jody, e lui e Mick Jagger sono diventati amici. Lo vogliono far uscire in dvd e hanno chiesto la collaborazione allo stesso Whitehead. 
Ma a Bellaria ci sono tante altre scoperte da fare, a partire da Gomorra, cinque storie brevi, il backstage del film di Matteo Garrone, curato da Melania Cacucci, ancora work in progress. Il progetto originale si è ampliato in interessante documento a parte, dove le storie che nel film si intrecciano si fanno singoli capitoli (per ora ci sono due, quelli dedicati a Totò e a Ciro e Marco, ambientate rispettivamente a Le Vele nel rione Scampia di Napoli e a Villaggio Coppola sulla Domiziana). Al girato dietro le quinte si aggiungono altri materiali, tra cui un'intervista a Roberto Saviano, l'autore del libro. Sono soprattutto le sue dichiarazioni a creare un altro pilastro nella narrazione, il racconto della realtà che entra brutalmente e ironicamente dal fuori scena nella scena osservata e si fa testimonianza drammatica. E vanno citati ancora Terrorista di César Meneghetti (Brasile 2007), collage di ricordi narrati da Percy Sampaio Camargo, professore di microbiologia, accusato di terrorismo nel lontano 1969. Il suo percorso di fuga lo porta nel Cile di Allende, e dopo il golpe di Pinochet riesce a rifugiarsi in Olanda per tornare in Brasile nel 1982 e ricominciare l'attività politica. Immagini decolorate, splittate in due parti, alternate a quelle a colori di Sampaio, oggi ha 74 anni, creano un flusso stimolante di linguaggi diversi, segni di storia che attraversa periodi politici neanche tanto lontani.

ELFI REITER
IL MANIFESTO BOLOGNA